Un tema complesso
Tema estremamente delicato, quello del dissenso: cosa vuol dire protestare, contestare, mettere in discussione idee più o meno condivise, fino alla possibilità di obiettare perfino contro la legge e le istituzioni? In che modo è lecito e ragionevole farlo? Fino a dove e a cosa ci si può spingere?
Il modo di trattare l’argomento potrebbe essere molto differente: a partire da un approccio storico si potrebbe tranquillamente allargare la riflessione a un livello etico-filosofico, per suscitare questioni di tipo morale, ma anche, per rimanere su un piano molto pratico, perfino economico.
Negli ultimi anni abbiamo visto un rifiorire di manifestazioni che hanno dato voce a gruppi e realtà molto differenti, movimenti e orientamenti di ogni genere, desiderosi di dare corpo e visibilità alle proprie posizioni: manifestazioni anche piuttosto consistenti che spesso hanno visto coinvolte generazioni molto differenti. Se alcuni decenni fa erano soprattutto i più giovani a ricercare un cambiamento anche attraverso forme più o meno radicali di protesta, oggi non mancano certo le eccezioni. Anzi, pare proprio che, fatta salva la questione ambientale, su tutto il resto tutti abbiano qualcosa da ridire.
Fragilità democratica
Paradossalmente, però, mai come negli ultimi anni, rispetto alla tradizione democratica dei paesi occidentali, si sta mettendo in discussione la liceità delle forme di dissenso, perfino nelle modalità più istituzionalmente riconosciute, come quella dello sciopero. Cosa sta accadendo?
La stanchezza delle democrazie, o, meglio, la difficoltà di tenere in equilibrio gli elementi propri di un sistema democratico, porta alla disaffezione: sempre più persone vivono l’illusione che di fronte alla percepita inutilità del proprio voto ci sia solo, come alternativa, quella della manifestazione diretta dei propri diritti, o di quelli che vengono percepiti come tali. Di fronte all’immobilismo che traspare dalle forme consuete e tradizionali della politica, sembra esserci, come unica risposta, quella dettata dalla protesta, dalle manifestazioni di popolo. Ma quale popolo? Quello che normalmente si coagula attorno a un interesse, a una visione molto parziale legata al benessere individuale o di una parte alla quale si sente di appartenere. Gli altri – tutti gli altri – diventano massa informe, gente da convertire e portare dalla propria parte o elementi inutili da ignorare. In fondo, oggi, molte proteste funzionano da cassa di risonanza di interessi davvero parziali, finendo per mettere in ombra anche quelle realtà che invece pongono la questione seria di un vero cambiamento che tenga debitamente in conto il bene comune.
In questo frazionamento costante che martella continuamente nell’unica prospettiva di una polarizzazione degli interessi, il rischio è che l’espressione del dissenso perda il proprio valore di stimolo nei confronti di una società che voglia mettersi seriamente in discussione. La possibilità è che le strutture democratiche siano ritenute sempre più inutili e antiquate smettendo di cercare con saggezza e insistenza quello che potrebbe tenerle aggiornate e vitali.
Si potrebbe sostenere, adeguandolo al tema trattato, il vecchio adagio secondo cui in base alla qualità delle manifestazioni di dissenso e al modo con cui tale dissenso viene percepito – e al limite anche osteggiato – si possa stabilire il livello di salute di una democrazia.
Due esempi
In conclusione, mi pare di poter offrire due esempi che possano sostenere la teoria che, in fondo, quello che manca oggi è un sentire comune davvero condiviso, almeno da una parte consistente della popolazione. Il primo esempio riguarda il tema dei cambiamenti climatici: neppure attorno tale questione si riesce a costruire un consenso che sia capace di andare al di là delle manifestazioni più o meno discutibili dei gruppi di protesta giovanili, per arrivare a cogliere la portata e l’urgenza del problema. Sempre di più sono i segni di insofferenza e di disapprovazione verso l’impegno dei gruppi come Ultima Generazione. È solo un problema di modi e linguaggi?
Il secondo esempio riguarda proprio il mondo delle università, da sempre al centro dello sviluppo dei movimenti di dissenso più significativi e incisivi. Perfino nei contesti di massima repressione, le università hanno costituito una riserva possibile e significativa di libertà, basti pensare al caso della Rosa Bianca ai tempi del nazismo e, in tutt’altro clima culturale, agli anni del ‘68, o alle proteste, in Italia, dei primi anni ‘90 a cavallo del crollo della Prima Repubblica. Oggi viviamo in un contesto totalmente differente, i movimenti di protesta che nascono all’interno delle università riguardano problemi individuali, nascono da questioni contingenti come quella degli alloggi, faticando a trovare uno sbocco davvero sociale, un respiro complessivo che sappia chiedere qualcosa di più incisivo e strutturale. Mancano movimenti che sappiano davvero interrogare la società sulle strutture portanti che la caratterizzano in profondità.
Una soluzione politica
Manca un sentire comune, manca la capacità di uscire dal proprio problema personale per abbracciare anche quelli degli altri e provare a trovare mediazioni possibili che aiutino la formulazione di nuove proposte.
Ci stiamo accontentando di protestare contro qualcuno, credendo che questo basti a farci sentire tutti un po’ più vivi, ma forse stiamo perdendo la capacità di formulare proposte che sappiano generare consenso per dare una voce più profonda e duratura al dissenso. Questo non può essere fatto senza la fatica del confronto, non può essere fatto senza passione politica e per la politica.
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