In un precedente articolo che si sofferma su una delle moderne forme di schiavismo, il caporalato, si è fatto riferimento al land grabbing. Si tratta di un fenomeno che alimenta i flussi migratori, soprattutto dall’Africa verso i paesi più sviluppati, e che, di conseguenza, innesca la dinamica per la quale grandi imprenditori, tramite i loro caporali, sfruttano gli stessi migranti, cioè lavoratori con tutele scarse o nulle. Nelle prossime righe verrà approfondita la pratica del land grabbing proprio in riferimento al continente africano e al modo in cui ancora oggi quasi tutti gli stati che lo compongono sono solo apparentemente indipendenti dalle grandi potenze globali.
Significato e funzionamento del land grabbing
Alla lettera: “accaparramento di terra”. Più precisamente, si tratta dell’acquisizione da parte di multinazionali, governi stranieri o soggetti privati di estesi appezzamenti del territorio di un determinato stato. E tuttavia non capiremmo il senso e soprattutto le finalità del land grabbing se non lo connettessimo al concetto di soft power, ovvero la sottile capacità di influenzare decisioni, di attrarre capitali e di risultare gradevoli all’esterno con la propria cultura e i propri ideali. In poche parole, quello che spesso gli stati più ricchi, e le loro istituzioni, provano a fare con quelli più deboli.
Gli accordi di acquisto o di locazione a lungo termine che vengono stipulati tra chi dà e chi riceve il denaro sono, nella maggior parte dei casi, poco trasparenti e conclusi sotto banco, il ché permette agli investitori di non pagare alcuna tassa doganale al momento dell’esportazione dei beni prodotti o estratti, con la conseguenza che spesso lo stato che ospita l’attività straniera non ci guadagna nulla, salvo piccoli sviluppi infrastrutturali. Le persone locali, pur abitando e coltivando quegli stessi terreni da decenni, nella stragrande maggioranza dei casi vengono sfrattate dalle loro case, senza previo consenso informato, e costrette a lavorare con strumenti e metodi ai quali non sono abituate, per poi essere assunte dalle multinazionali a cui avevano lasciato il posto con la promessa di un miglioramento della loro qualità di vita.
Investitori e venditori
Guardando a chi finora si è accaparrato più terra all’estero in questa maniera, troviamo USA e Canada in Nordamerica, Svizzera e Spagna in Europa e tanta Asia, rappresentata in particolare da Giappone, Cina e India. Fra i paesi che invece hanno ceduto più terra ne vediamo diversi africani e sudamericani. Bizzarra è la situazione del Brasile; unico paese che acquisisce e allo stesso tempo cede appezzamenti in grandi quantità. In totale i terreni interessati dal land grabbing costituiscono un’area pari a 92 milioni di ettari, tre volte la superficie dell’Italia (fonte: Land Matrix).
Sono tre le principali ragioni per cui è il continente africano a dover subire maggiormente questa pratica: una storica, un’altra politica ed un’ultima economica. In primo luogo, l’Africa ha patito per secoli il colonialismo europeo, certo flebile e incentrato sulle coste dal tardo Quattrocento agni anni ’70 dell’Ottocento, ma poi sempre più aggressivo e penetrante. In secondo luogo, anche dopo aver ottenuto l’indipendenza (nella seconda metà del Novecento) molti paesi non hanno creato sistemi politici stabili e capaci di risolvere autonomamente le innumerevoli problematiche interne. In terzo luogo, il continente africano è molto ricco di risorse idriche, forestali, petrolifere e di gas, produce ed esporta prodotti importanti per i mercati europei ed asiatici come cereali, bevande e gomma, e ha enormi giacimenti di risorse utili per la fabbricazione di gioielli e per la costruzione di macchine ed apparecchi elettronici.
Una finta benevolenza
Sono ancora più varie le motivazioni per cui i grandi stati hanno dato vita, dopo più di cent’anni, ad una seconda e più occulta, ma non per questo meno biasimevole, “corsa all’Africa”. Eppure tutte rimandano alla necessità dei medesimi stati di avere a disposizione sempre nuovi mezzi per sviluppare la propria economia e competere con l’estero, mascherati però, così come le classi politiche dei paesi con cui fanno affari, da grandi benefattori e legittimando così i loro progetti. Per fare qualche esempio, la Cina investe nel continente sin dai tempi di Mao, essendosi presentato allora come paese un tempo oppresso dalle forze occidentali e quindi pronto a stare dalla parte degli africani e a trattarli come pari.
Essa sarebbe ora intenzionata a realizzare la cosiddetta nuova via della seta; il piano di investimenti in infrastrutture terrestri e marittime varato dal presidente Xi Jinping nel 2013, che ha la finalità di incrementare il flusso commerciale tra Asia, Africa ed Europa e di ottenere la supremazia sull’Oceano Indiano. Ciò ha obbligato l’India, che strizza l’occhio al corno d’Africa, a scendere in campo per non rimanere isolata, mentre la caccia alle terre rare, elementi chimici utili alla realizzazione di superconduttori, magneti, catalizzatori, fibre ottiche e veicoli ibridi, ha fatto drizzare le antenne anche agli USA. Non mancano gli interessi anche di Russia – che già da quando apparteneva ancora all’URSS finanziava movimenti indipendentisti e rivoluzionari di stampo socialista in Africa –, di Gran Bretagna e Francia – mai arresesi alla decolonizzazione –, della stessa Italia attraverso l’Eni e delle insospettabili Svezia e Finlandia, in cerca di litio per realizzare auto supergreen.
Un «aiuto mortale»
A fronte delle narrazioni che vedono nel land grabbing un aiuto che il “nord” del mondo farebbe al “sud”, l’economista zambiana Dambisa Moyo ha definito questo aiuto «mortale» perché, nonostante i discreti miglioramenti ottenuti dai paesi africani grazie ai prestiti degli istituti internazionali e dei soggetti privati, è convinta del fatto che questa retorica caritatevole, in fondo, danneggi la stessa Africa e la vincoli a un circolo vizioso da cui non potrà mai uscire, deresponsabilizzando peraltro le élites politiche africane. Al momento non si può pensare a immediate ed efficaci misure contro il land grabbing, tanto esso è radicato e continuamente alimentato, ma per cominciare non sarebbe poco prendere coscienza della sua esistenza e delle proteste che già mettono in atto le popolazioni a cui viene sottratta la terra. Esse sono più che consapevoli, benché impotenti, delle imminenti sofferenze.
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